Settembre 2018. I gradini di palazzo Cavarretta erano solo tre o quattro, ma Curtis Nwohuocha non aveva bisogno di averne tanti sotto i piedi per dominare la scena. Mentre il gigante, microfono in mano, pronunciava parole sagge, la serata si scaldava: un lungo tavolo nel tratto iniziale di Corso Vittorio Emanuele, tanta gente attorno, l’iniziativa “Un Mediterraneo di pace” si popolava di gente comune, i colori della pelle a mescolarsi.
Incontro Curtis cinque mesi dopo quella memorabile serata: sono curioso di conoscere la sua storia, da lui appena accennata quando parlò alla manifestazione, il capitano Renzi al suo fianco. “Sono nigeriano di nascita, italiano di adozione, sono figlio di due paesi. Mio padre venne da solo in Italia, ora è un operaio metalmeccanico, partì per migliorare la sua posizione. Allora non c’erano i barconi, nei primi anni ’90 c’erano ancora i flussi, la gente arrivava coi permessi di soggiorno e provava a costruirsi un futuro senza rischiare la vita. Si stabilì a Cantù, trovò un lavoro, mia madre lo raggiunse dopo qualche anno. Io sono nato nel ’97, a Cantù, Italia”.
Curtis si ritiene un privilegiato: “Sono nato in una città di basket, è stato facile cominciare a giocare a cinque o sei anni. Sono cresciuto in un ambiente protetto, considerato sempre da tutti un giocatore, per un giocatore di pallacanestro il colore della pelle non conta niente. Siamo guardati in un altro modo, infatti episodi di razzismo sulla mia pelle non ne ho mai vissuti. Magari il razzista mi stringe la mano e mi incoraggia, e voltato l’angolo dà addosso al nero privo di uno status come il mio”.
Famiglia integrata, dunque: “Sì, ho una sorella più piccola, mai avuto fastidi a Cantù. Quello che dico e che penso riguardo ai problemi che la mia gente ha in Italia, lo faccio perché mi rendo conto che si respira una brutta aria. So che l’immigrazione è un problema complesso, che l’Italia da sola non può accogliere tutti, ma chiudere i porti e lasciare la gente in mare non mi pare la soluzione migliore”.
Il dibattito sullo ius soli, proposta di legge purtroppo finita in niente, ha riacceso vecchie ferite: “Pur essendo un privilegiato, ho vissuto quell’ingiustizia. Mi ricordo che non potevo giocare in nazionale, evitavano di convocarmi perché senza cittadinanza, pur essendo nato in Italia, pur avendo fatto le scuole qui, quella maglia azzurra non potevo indossarla. Non potevo varcare i confini italiani, perché avevo una carta d’identità non valida per l’espatrio. Insomma, ero un italiano a metà. Per fortuna sono riuscito ad ottenere la cittadinanza prima dei diciotto anni, un passaggio che ha cambiato la mia vita”.
“Mi fa male vedere l’ostilità degli italiani verso i migranti. Io penso che tutti dovrebbero avere una possibilità, nella vita. In Nigeria non torno da tempo, tutti i miei parenti sono lì. Se penso alle mie origini? Sì, certo che ci penso”.
(Neanche a farlo apposta, il giorno dopo la mia chiacchierata con Curtis, è in programma presso l’azienda Castiglione una conferenza di Stefano Allievi, sociologo padovano. Presenta il libro “Immigrazione” (Laterza), racconta in termini scientifici pari pari la storia di Curtis. Riporto il risvolto di copertina: “L’immigrazione è un fenomeno strutturale da decenni. Tuttavia è sempre stato affrontato in termini di emergenza, come fosse un fatto episodico. Ma l’estensione, la qualità e la quantità del processo sono tali da esigere una soluzione complessiva al nostro sistema di convivenza che non sottovaluti il malessere diffuso nell’opinione pubblica. Le recenti polemiche intorno al ruolo delle ong nei salvataggi sono l’ultimo degli esempi. Per non dire della crescente xenofobia che rischia di indebolire la coesione sociale nel nostro paese. L’immigrazione irregolare, il trafficking (i suoi costi e i suoi morti), i salvataggi, i respingimenti, la gestione dei richiedenti asilo con le sue inefficienze, le forme dell’accoglienza. E ancora, i problemi legati ai rimpatri, alla cittadinanza, alle implicazioni delle diverse appartenenze religiose: è urgente e necessaria una riflessione critica onesta su tutte le questioni che accompagnano le migrazioni attuali, affrontando quelle più spinose, con il coraggio di proposte radicali”.
Insomma, bisogna tornare ai flussi regolari, in tutta Europa. Tanto arriverebbero lo stesso, attraversando i deserti, sfidando torture e prigionie, sui barconi, clandestini per legge, morendo in mare mentre il ministro del terrore fa lo sbruffone. Oltre tutto, egoisticamente, gli immigrati ci servono, per comprenderlo basterebbe studiare un po’ e non nutrirsi solo di slogan. Curtis lo dimostra raccontando la sua storia, Allievi lo dimostra coi suoi studi. Ma il becero razzismo riempie le urne.
(“Andrea, devi venire alla presentazione di questo libro. Sai quanta gente insospettabile, qui in libreria, ha storto il muso quando l’ho invitata? Di immigrazione non vogliono sentir parlare, si infastidiscono”. Così stimolato, vado. La sala è piena, calorosi gli applausi ad Allievi, peraltro formidabile comunicatore. Significa qualcosa? C’è speranza? Non mi illudo.)
Foto di Francesco Vivona