mercoledì, Gennaio 29, 2025

“Pietro Ermelindo” di Andrea Castellano

“Hello darkness my old friend, i’ve come to talk with you again…”
The sound of silence, Simon & Garfunkel, 1965

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Roma, febbraio 1996, Fosse Ardeatine. Soli, io e Anna, fra le tombe, schiacciati da quella enorme lastra di cemento. Nella mente, le note e le parole di un celebre pezzo degli anni ’60. Nella penombra e nel silenzio, vicini al sarcofago numero 39, una foto e un nome: Pietro Ermelindo Lungaro, partigiano a Roma. Penombra e silenzio che non c’erano, non ci potevano essere, il 24 marzo del 1944, mentre i nazisti uccidevano – un solo colpo alla nuca – 335 italiani: partigiani, ebrei, semplici cittadini rastrellati per caso. Aristocratici e operai, comunisti e monarchici, romani, lombardi, pugliesi, sardi o siciliani, da tutta Italia. Uno spaccato unico dell’Italia resistente a fascisti e nazisti.

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Roma, 25 marzo 2019. Quando entra il presidente Mattarella, tutti si alzano in piedi. Nessuno meglio di lui sa cosa significhi il massacro delle Ardeatine nella fondazione dell’Italia repubblicana e antifascista: appena eletto, saltò sulla sua Panda e andò da solo al sacrario, simbolo moderno dell’unità d’Italia. Poco prima era arrivata Virginia Raggi, accolta da qualche lazzo dagli studenti attorno a me. Alla celebrazione del 2017, la sua prima da sindaca, non c’era: lontana da Roma, a sciare. Neanche i fascisti Storace e Alemanno erano arrivati a tanto.

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Pietro Ermelindo Lungaro faceva il poliziotto a Roma, era monarchico. Nel 1944 aveva 34 anni, un uomo fatto. Due figli: uno di 4 anni, l’altro di 2, un terzo in arrivo. Da poliziotto era al sicuro: i nazisti odiavano i carabinieri, il Corpo del Re, figurarsi che appena preso il controllo di Roma ne deportarono 2.000 circa, pensando prima a disfarsi di loro e solo dopo della comunità ebraica. Ma i poliziotti potevano stare tranquilli: dipendevano dal ministero degli Interni, dalla repubblica di Salò, da quel che restava del regime e del duce. Pietro poteva stare comodo dietro la sua scrivania, allungare le gambe e intrecciare le mani dietro la testa. E attendere che la tempesta si placasse.

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La cerimonia procede come al solito, come la ricordavo quando ero andato nel 2004. Parla il rappresentante dell’Anfim, ricorda Rosetta Stame, presidente dell’associazione morta a febbraio. Era figlia del tenore Nicola Ugo Stame, ammazzato alle Ardeatine. Ha dedicato la vita al ricordo del padre partigiano, comunista di Bandiera Rossa. Rosetta, splendida e fiera donna, queste due parole, partigiano e comunista, non dimenticava mai di pronunciarle. Priebke la querelò per diffamazione, e vinse. E Rosetta dovette pagare anche la pubblicazione della sentenza su un paio di giornali nazionali.

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Ma a Pietro di stare seduto ad attendere tempi migliori non andava proprio. Già da un po’ quel che accadeva non gli piaceva. La guerra, una follia. I bombardamenti di Roma, l’armistizio, la fuga del re. Come continuare ad essere fedele a un re che fugge? Col dottor Nicolò Licata, trapanese d’origine, ginecologo della moglie, socialista, si era già confidato. Ma bisognava fare qualcosa. I tedeschi avevano già portato via i carabinieri, nove giorni dopo c’era stato il rastrellamento al ghetto ebraico. Si stavano formando i primi gruppi partigiani. I poliziotti erano considerati fascisti e collaborazionisti: Pietro non voleva essere confuso con loro.

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Il momento più toccante della cerimonia è la lettura dei nomi dei 335 caduti. E’ affidata a Aladino Lombardi, dirigente dell’Anfim, che la legge col tono e le pause giuste. Questa volta il nome di Lungaro è al suo posto, nel 2004 era saltata la “L” ed era stato letto alla “U”. Lo feci notare, dopo, e Lombardi quasi s’incazzò. Intervenne un poliziotto e mi rassicurò: “Stia tranquillo, ci pensiamo noi, non si ripeterà più”. Lombardi s’allontanò stizzito. Le lettura è durata poco più di 13 minuti, cronometrata da Elena. Ad ammazzarli tutti nel ‘44 ci vollero, più o meno, cinque ore.

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Pietro aveva conosciuto Umberto Grani, un maggiore dell’aeronautica. Col fascismo non aveva mai legato, l’arma lo teneva ai margini. Aveva formato una banda, la “banda Grani”, apparteneva al partito d’Azione. Il partito d’Azione, il più repubblicano e antimonarchico esistente in Italia, quasi più dei comunisti. Pietro si avvicina a Grani ed ai suoi, vuole collaborare, dare una mano, servono armi e qualcosa lui può procurarla. Grani studia addirittura un assalto a via Tasso, il carcere nazista vicino a San Giovanni, il luogo della repressione e delle torture. Pare che Pietro un occhio a quel progetto l’abbia buttato.

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La cerimonia volge al termine, tre quarti d’ora scarsi, dopo la preghiera cattolica ed ebraica, quest’ultima guastata da un sottofondo di chiacchiericcio e distrazione. Un coro alpino intona due canti, uno è la celebre “Ninna Nanna” di don Morosini, l’altro un canto militare. In quei tre quarti d’ora le parole “partigiani” e “resistenza” non sono mai state pronunciate. Del resto è una cerimonia totalmente militarizzata, esattamente come quella che si svolge ogni 8 settembre a Porta San Paolo, in ricordo della battaglia in difesa di Roma contro i tedeschi che arrivavano da sud. Battaglia che segnò l’avvio della resistenza italiana e combattuta anche da molti civili.

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Fra gennaio e febbraio l’aria a Roma si fa pesante. I partigiani colpiscono e i tedeschi reagiscono. E’ avvilente che gran parte degli arresti siano propiziati dai delatori italiani. Denunciano gli ebrei nascosti (730 circa, in gran parte non tornati dai campi di sterminio, 5.000 lire a “pezzo”) e i partigiani. A volte i nomi dei compagni sono strappati con le torture. Gianfranco Mattei, giovane chimico, artificiere dei Gap, dopo le prime botte teme di non essere talmente forte da resistere: gli avevano lasciato le bretelle e le usa per suicidarsi, in una cella a via Tasso. Aveva 28 anni ed era assistente all’università del futuro Nobel Giulio Natta. Un delatore colpisce anche il partito d’Azione: Grani è arrestato il 5 febbraio, Pietro il 7, in caserma. Si ritrovano entrambi a via Tasso. I tedeschi vanno a perquisire la casa di Pietro: lo ricorda un ragazzino che la segue dalla finestra di fronte. Il soldato tedesco che s’affaccia sul balconcino: il racconto mi fa venire in mente una scena de “Il pianista”, il film di Polanski.
I nazisti picchiano, gli interrogatori sono duri. I familiari sperano che venga rilasciato. Le azioni partigiane continuano, il 23 marzo, il giorno dell’anniversario della fondazione dei fasci, i gappisti attaccano in via Rasella il battaglione tedesco “Bozen”. L’azione riesce alla perfezione: muoiono 33 militari. Durante la sera e la notte i tedeschi preparano di nascosto la rappresaglia, dieci a uno. Svuotano via Tasso e il terzo braccio di Regina Coeli, mettono nella lista 75 ebrei destinati alla deportazione ad Auschwitz e passanti arrestati nei pressi di via Rasella. I fascisti collaborano, il questore Caruso fa consegnare a Kappler la sua lista. Metterne assieme 330 è difficile, tanto difficile che alle cave Ardeatine, luogo appartato scelto per il massacro, Priebke se ne ritrova 335, cinque in più. Vanno a morire anche loro, già che ci sono. Cinque alla volta, un colpo alla nuca, uno sull’altro, strati su strati di cadaveri.
Pietro è ucciso fra gli ultimi: i suoi resti sono rinvenuti fra i primi, in cima alla collina di corpi. Sta al sarcofago 39, chissà qualche suo concittadino passasse un giorno da lì e se ne ricordasse.

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A cerimonia conclusa, quando le autorità sono andate via, quando gli studenti, per lo più annoiati o divertiti, secondo le sensibilità, sono risaliti sui pullman, noi entriamo al sacrario. Ci siamo solo noi tre e un picchetto d’onore composto da militari di tutte le armi. Penombra e silenzio fanno scattare nella mia mente Simon & Garfunkel, il pezzo gira in loop nella mia mente per tutto il tempo che sto lì dentro. Non riesco a darmi pace per quella cerimonia che espelle il significato vero di quel che sono state le Fosse Ardeatine: la lotta partigiana, la resistenza, un popolo che si ribella e accetta il rischio di morire, come Pietro e la gran parte di quei 335. Invece, niente. E sì che ce ne sarebbe bisogno, oggi, con la paccottiglia neofascista che rialza la testa, Casa Pound, Forza Nuova e roba del genere. Rialza la testa in Italia e un po’ in tutto il mondo. Nel paese in cui “Mussolini ha fatto anche cose buone” e il fascismo diventa senso comune. Invece, niente: retorica a piene mani, presentat’arm e tutti a casa a pranzo che s’è fatto tardi.

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(Quando lavoravo alla ricostruzione della vita e dell’attività partigiana di Pietro, mi capitarono queste due cose qui.
Mi ero procurato un opuscolo, pubblicato molti anni prima, riguardante una biografia di Lungaro. Conteneva, fra le altre notizie, una testimonianza di un certo Ignazio Fortunato, un signore che aveva conosciuto Pietro da ragazzo. A fianco al testo, una foto di Fortunato. Un giorno, in archivio in banca, su una scala, mi ritrovavo a cercare un faldone. Ce n’erano decine, ne presi uno a caso e lo aprii, a metà: a destra spuntò la fotocopia della carta d’identità di Fortunato, con la stessa foto dell’opuscolo. Restai lì, appollaiato sulla scala, non so per quanto tempo, il cuore a battere forte. Tornai al mio posto, turbato.
Qualche giorno dopo andai in libreria. Avevo promesso in regalo al figlio di Pietro (Pietro anche lui) il libro di Alessandro Portelli “L’ordine è già stato eseguito”, testo fondamentale per comprendere le Fosse Ardeatine e non solo. Giunto in libreria, chiedo a Teresa: “Mi ordini per favore una copia del libro di Portelli?” Teresa mi fissa, tace per qualche secondo, poi dice “Ne è arrivata una copia due giorni fa, ma io non l’avevo ordinata”.
Ora, matematici e statistici, se interpellati, direbbero che i due fatti non sono poi così né rari né straordinari. Da miscredente, riflettendo, mi diedi una spiegazione di questo tipo: una forma di auto sollecitazione, ovvero Andrea che intimava a Castellano di darsi una mossa, e concludere presto quel lavoro. Cosa che feci, il lungo articolo pubblicato sul settimanale locale Monitor. E così Andrea smise di tormentare Castellano.)

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