L’idea mi frullava nella testa da anni e anni. Ogni tanto era Marco Martin a spingere: “ma perché non vi mettete a scrivere una storia di quegli anni…”. “Sì, Marco, ci stiamo pensando”, ma era solo per tener buono il giocatore che in assoluto è rimasto più legato alle avventure cestistiche trapanesi.
Poi vinceva la pigrizia e la difficoltà già solo ad immaginare la struttura di un libro di questo genere. Così, senza la spinta di Fabio – questa volta il visionario è stato lui – mai ci saremmo messi all’opera. Gli altri visionari sono stati gli editori, Màrgana: non ci conoscevano, non avevano mai pubblicato libri che raccontassero di sport, conservavano ricordi sbiaditi degli anni del Palagranata, nutrivano dubbi sulla circostanza che si trattasse di una storia troppo locale: eppure, ci hanno dato fiducia.
È stato Fabio ad immaginare la composizione del libro: individuare le dieci partite simbolicamente più importanti della storia del nostro basket (poi sono diventate undici, anzi undici e mezza), e costruire attorno alla singola partita il racconto del contesto, non solo sportivo, ma anche sociale della nostra città. E poi, non soffermarsi solo sulla Pallacanestro Trapani del Palagranata, ma andare indietro a riscoprire le radici (il libro parte dal 1978, ma in realtà risale fino alla fine degli anni Sessanta) e poi avanti fino ai giorni nostri o quasi, per comprendere come la passione non si sia mai spenta a far sì che, in almeno due occasioni, quando tutto sembrava perduto, ecco la brace a rigenerare il fuoco.
La spinta, infine, è nata dalla considerazione che un racconto di questo pezzo di storia sportiva trapanese (ma direi siciliana, anche), mancava: negli anni avevamo scritto vari articoli sui giornali, c’erano stati servizi televisivi, a celebrare e ricordare anniversari, ma i giornali la sera sono già vecchi, e la tv archivia e la storia resta sepolta dentro i pc. Un libro, per me e Fabio che non siamo più giovanissimi, rappresenta ancora un’altra cosa.
Ci siamo messi al lavoro mentre scattava il primo lockdown del 2020, ognuno con un proprio metodo di lavoro. Io mi sono attaccato al cellulare, recuperando molti contatti grazie ad una rubrica telefonica vivente, ovvero Giacomo Genovese. In quei giorni, la tv trasmetteva il docufilm “SanPa”, la ricostruzione delle vicende della comunità San Patrignano di Muccioli. L’autore, presentando il lavoro, disse che la gran parte degli intervistati rispondeva come se negli anni avesse atteso quel contatto, ed ecco che un bel giorno arrivava. Alla fine del mio lavoro, ho ricavato un’impressione analoga: le chiacchierate duravano più del previsto, suddivise in due o tre giorni diversi, i personaggi che apparentemente sembravano più distaccati e freddi, raccontavano con pazienza, tirando fuori ricordi sommersi dal tempo. E sembrava che attendessero quella telefonata.
Così, ad esempio, Mario Piazza rivela un calore sorprendente, Peppe Cassì una nostalgia bruciante, Marco Martin l’entusiasmo di un ragazzino. E poi c’è il racconto vivo e toccante di Riccardo Cantone del momento in assoluto più drammatico della nostra storia sportiva, e il fatto curioso che si somma ai tanti verificatisi nella mia vita: chiamo dopo venticinque anni Gianluca Castaldini, e lui mi dice “sono in partenza per Trapani, ci vediamo di presenza”.
Ne è venuto fuori un racconto corale che attraversa trentacinque anni e più, in cui sono intervenute, direttamente o indirettamente, una quarantina di persone. Ne è venuto fuori un racconto “partigiano”, nel senso che io e Fabio siamo profondamente immersi in quelle storie, e quindi non si cerchi obiettività perché non la si troverà: la frase riportata in esergo e tratta da un libro di Giorgio Van Straten, questo vuole spiegare.
Ci abbiamo messo anima e passione, resta da augurarsi che il risultato finale almeno si avvicini allo sforzo compiuto.
Andrea Castellano
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Già pensare di scrivere un libro, per come vivo io le mie capacità, lo consideravo un atto di presunzione. Scriverlo, poi, è stato, dentro di me, tutt’altro che semplice, perché ho dovuto vincere una strana timidezza iniziale con me stesso: soprattutto nel rivelare una serie di fatti della mia vita che non avrei mai creduto venissero fuori. Alla fine, però, è stata una bellissima avventura, dal primo all’ultimo momento. Mettere insieme il puzzle dei ricordi con quello delle emozioni è stata un’operazione complessa. Mi sono convinto a farla, perché credevo e credo che debba rimanere traccia scritta di cosa abbia significato la pallacanestro per la nostra città e il nostro territorio. È perché credo che le ragazze e i ragazzi che oggi giocano a pallacanestro debbano sapere perché questa città abbia questa cultura di basket.
“De rebus nostris colendis” è il bellissimo motto della Libera Università di Trapani, vedi caso “inventata” e fortemente voluta dal dottor Giuseppe Garraffa, padre di Vincenzo, poi diventato il visionario che ha fatto iniziare tutto. “Bisogna mantenere le proprie tradizioni” è il suo significato. E niente è più efficace, come riassunto didascalico, per spiegare il perché di questo libro. Un occhio sereno e attento al passato aiuta sempre a vivere meglio il presente e progettare il futuro.
Ultima considerazione: da “malato” dello sport di squadra, tra le soddisfazioni più belle, tra i sentimenti più positivi, c’è stata e c’è la gioia di condividere tutto questo con Andrea, con cui si è rafforzato un legame vero di stima e affetto già esistente. Non c’era da vincere o perdere. Ma da emozionarsi sì… e con lui è stato più bello.
Buona lettura
Fabio Tartamella