Soldi in tasca pochi, ma tanta passione, giornalistica e cestistica. Così, mi feci coraggio e telefonai al segretario di redazione.
“Pronto, sono Castellano, ascolti, domenica la Pallacanestro Trapani gioca i play-off a Porto San Giorgio, è una partita importantissima. Vorrei andarci e scrivere il pezzo. Mi rimborsate le spese?”
“No. Pronto, sei ancora lì? Che fai, ci vai lo stesso?”
“Sì”.
Respinto con perdite, dovetti industriarmi per organizzare una trasferta decente, contando le banconote nel portafogli. L’unica soluzione era quella di unirmi a Silvio, Paolo e Aldo: nave Palermo-Napoli venerdì sera, poi in auto fino a Porto San Giorgio. Lì sarebbero arrivati in tanti da Trapani e dalle sedi universitarie sparse per l’Italia.
Sapevamo cosa ci attendeva: accuratamente preparata da abilissimi ultras con penna, il clima a Porto San Giorgio era ben più caldo della temperatura ordinaria di quei primi di maggio. Era successo che la domenica precedente, in gara-uno, Trapani aveva vinto ma l’arbitraggio era stato pesantemente messo sotto accusa dagli ospiti. Bob Lovatti, ottima guardia di quella squadra, s’era addirittura spinto a dichiarare che a far vincere Trapani era stata una decisione politica. La stampa locale non aspettava altro, e così, una settimana piena di martellamento mediatico conduceva a quel clima lì. Quel campo, oltre tutto, appena un anno prima, aveva già ricevuto tre giornate di squalifica, per dire della reattività di quella tifoseria. Riflettendo su tutto ciò, ci mettemmo in viaggio.
Porto San Giorgio è un posto molto bello: passeggiando su quelle strade vicino alla spiaggia e al mare, Luca ci raccontava che Mario Moretti, il capo delle BR, era nato e cresciuto lì. Un paio di velenosi articoli, nei giorni precedenti, li aveva scritti proprio Luca, ma avevamo fatto amicizia, il “patto di Calvino” a comporre ogni attrito. Il sabato sera ci portò a Imola, a vedere Imola-Siena, l’altra sfida play-off di quella B d’eccellenza. Il giorno dopo ci sarebbe stato il gran premio (vinse Patrese): era tutto un accampamento di tende e roulottes. La partita, lenta e di una noia mortale, la vinse Imola.
La domenica andammo presto al palasport. Tribunetta stampa (tavolini e sedie come a scuola) al fianco di un canestro. Alla nostra destra la panchina trapanese, di fronte a noi, dietro all’altro canestro, il muro del tifo sangiorgese. Capeggiato da un omone in canottiera, ricoperto di tatuaggi in un tempo in cui il tatuaggio non era moda comune, ma indice di una ben precisa biografia. Sulla gradinata di fronte alle panchine, il pubblico trapanese: evidente, già dall’abbigliamento, l’impreparazione a combattere battaglie.
All’ingresso della Pallacanestro Trapani, il fuoco s’accende. Bibo e Davide si guardano, sorridono. Fianco a fianco, s’incamminano verso la curva occupata dai tifosi di casa. Il riscaldamento Trapani dovrebbe farlo dal lato opposto, ma quelle due facce toste hanno deciso diversamente. Li vedo di spalle, procedere lentamente: sembra una scena presa da un western di Sergio Leone. Gli altri granata, riluttanti, non possono che seguirli.
“No, fermi, dovete andare dall’altra parte!”
“No, noi ci scaldiamo qui”. Apriti cielo, anzi, apriti ombrello. Provocazione? Certamente sì. Però, che fegato che avevano quei ragazzi.
Mentre si gioca una combattutissima partita, all’11’, davanti la panchina della Sangiorgese, Mario viene colpito in fronte da un accendino, vai a sapere se poi era proprio un accendino. Non lo lanciano gli ultras, ma quelli incravattati. A terra, viene soccorso, si vede il sangue, va nello spogliatoio, poi torna in panchina ad inizio secondo tempo. Rientra a 6’ dalla fine, fa in tempo a provare il tiro dell’aggancio allo spirare del match. La Sangiorgese ha vinto, ma l’inferno si scatena ugualmente. Vedo arrivare una massa inferocita verso i nostri banchetti, guidata dall’omone tatuato. Faccio appena in tempo ad alzarmi afferrando i fogli sparsi e la mia Lettera 32, prima che banchetti e sedie vengano spazzati via da quella folla. Se non mi fossi scansato, mi avrebbero spiaccicato senza nemmeno accorgersene.
(Pochi anni prima mi ero già trovato nei guai. Sulla strada che costeggia la tribuna dello stadio, preso fra la carica della polizia con caschi e manganelli, e gli ultras. All’epoca ero veloce e mi salvai. Ero lì per scrivere un pezzo di colore su un come sempre sereno derby Palermo-Catania.)
Mi rintanai in una stanzetta per scrivere il pezzo, ma poco prima, passando vicino allo spogliatoio trapanese, non potei non sentire le urla toscane di Cacco. Stava inchiodando al muro il presidente, che lo aveva costretto a rimettere in campo Mario. “Ma Cacco, ragiona, potevamo ancora vincerla!” Non riferisco la risposta.
Nel frattempo, gli ultras in canottiera erano stati fatti uscire dal palasport da quei quattro o cinque carabinieri spediti in forze a presidiare l’ordine pubblico. I gentlemen avevano approfittato dell’occasione per prendere al bersaglio, con pietre raccattate lì attorno, le vetrate del palazzetto dall’esterno. I nostri tifosi, rimasti prudentemente dentro, dovettero così scansare la pioggia di cristallo.
Alla fine, tornammo tutti sani e salvi nei rispettivi alberghi. L’indomani mattina, io e Silvio ci ritrovammo da soli. I nostri compagni di viaggio si erano uniti a squadra e dirigenti, tornando in aereo. Ci attrezzammo per il lungo viaggio di ritorno (questa volta senza nave). Feci incetta di gettoni telefonici, perché dovevo assolutamente informarmi su ciò che succedeva mentre ero confinato su un’auto in una autostrada infinita. Ricorso per il 2-0 a tavolino? “Boh” era la risposta più articolata che avevo fin lì ricevuto.
Autogrill n.1. “Pronto? Siete arrivati? Che si dice?”
“Mah, qui c’è un nervosismo che non ti dico. Pare che il ricorso non si possa fare perché Mario è rientrato. Cacco è furioso. Ci sentiamo più tardi”.
“Pronto, Carlo? Non si sa cosa può succedere, bisogna seguire momento per momento. Scrivere io un pezzo interlocutorio? E come faccio, sono in autostrada. Guarda che siete stati voi a non volermi rimborsare il viaggio, con l’aereo a quest’ora sarei già arrivato”.
Autogrill n.2. “Allora, novità?”
“Qui è cambiato tutto, siamo in contatto con un avvocato romano bravissimo, specializzato in giustizia sportiva. C’è un precedente nel basket femminile, una giocatrice, costretta ad uscire per una pallonata arrivatagli da un tizio a bordo campo, è poi rientrata, ma la sua squadra ha vinto lo stesso a tavolino. Perché è stata sostituita per motivi estranei al gioco, capisci? Uguale al nostro caso. Qui ora sorridono tutti, tranne Cacco che è ancora incazzato nero. Ma tu quando arrivi?”
“Boh!”
Autogrill n.3. “Allora Carlo, ti do le notizie, scrivete che ci sono ottime possibilità di ottenere la vittoria a tavolino. Non ti chiamo più, anche perché ho finito i gettoni. Sempre grazie per la generosità del giornale”.
Alla fine, col buio, io e Silvio arrivammo a destinazione. Girato l’angolo di casa, mi accorsi che lo slargo dietro era illuminato: tutti i lampioni funzionavano, emanavano una luce bianca e calda. Erano stati sempre spenti, in trent’anni io me li ricordavo sempre spenti, e lo slargo al buio. Sceso dall’auto con la schiena e tutto il resto a pezzi, mi fermai a guardare quella luce bellissima: non potevo saperlo, ma era il felice presagio di ciò che sarebbe accaduto due giorni dopo.
(Per rinfrescare la memoria di quei giorni, maggio 1990, ho consultato la rassegna stampa che in quegli anni la Pallacanestro Trapani produceva. Mi sono così imbattuto negli articoli del mio amico Luca. Dopo aver pestato sui tasti per una settimana intera raccontando di una partita praticamente truccata e regalata a Trapani dagli arbitri, si interrogava su di chi fosse la colpa di ciò che si era verificato a Porto San Giorgio. Dei tifosi? Della società? Delle forze dell’ordine? Sulle responsabilità sue e dei suoi colleghi neanche una parola. Ultras con la penna, appunto.)